L’Italia è un Paese bellissimo, pieno di arte e cultura. Internazionalmente riconosciuta come un museo a cielo aperto, dove in ogni angolo si possono scoprire tesori d’arte nascosti, ammirare panorami mozzafiato o visitare musei tra i più famosi al mondo. Nonostante questo, il ricavo complessivo dei musei italiani nel 2013 è stato “solo” di 380 milioni di euro mentre il Louvre da solo arriva a 2,5 miliardi e la Gran Bretagna a 5 miliardi. Come mai?
Oltre a problematiche legate alla promozione del patrimonio artistico si incorre anche al problema della scarsità dei servizi che il museo offre: spesso questi sono carenti soprattutto perché il visitatore non viene ancora percepito come un cliente. “La cultura non è in vendita”, questo viene spessa usata come “scusante”, ma la domanda che non viene fatta è: “Cosa vuole realmente il visitatore? Cosa si aspetta di trovare all’interno del museo oltre alla opere d’arte?”.
Sono domande importanti, necessarie perché ci troviamo in una condizione di arretratezza digitale quasi imbarazzante. In Italia, infatti, spesso non viene dato il giusto peso alle nuove tecnologie che il mercato offre, anche se potrebbero aumentare notevolmente il valore percepito e la soddisfazione dei visitatori.
All’estero è leggermente diverso, sicuramente c’è un interesse maggiore nella promozione digitale dei luoghi culturali dei quali viene curato almeno il sito e le informazioni presenti in rete (mentre in Italia spesso anche i musei più importanti non hanno un sito internet interattivo, responsive ed efficiente). Ma anche lì, le cose non sono sicuramente idilliache. Pensate che fino a poco tempo fa, anche il Met di New York non aveva neppure un modo per raccogliere gli indirizzi mail dei suoi visitatori (più di sei milioni di persone all’anno). Ora, semplicemente chiedendo di inserire i propri dati per accedere alla Wifi del museo, hanno già acquisito più di 100.000 indirizzi mail. Ma anche questa tecnologia oggi risulta essere quasi superata.
La novità si chiamano “beacon”(in italiano “faretti”) ossia piccoli emettitori Bluetooth che, attraverso un segnale digitale, consentono al visitatore di accedere a molti servizi personalizzati, tra i quali anche accedere a più informazioni riguardanti il quadro o l’opera d’arte che sta osservando. Tramite il proprio smartphone sarà quindi possibile vivere il museo in modo più interattivo, coinvolgente e dinamico, adattando la visita ai propri interessi.
Tutte queste informazioni sono fondamentali, essenziali per chi gestisce e dirige un’ente o istituzione culturale per delineare strategie di marketing sempre più precise, creative e personalizzate in modo da aumentare i ricavi e rendere più entusiasti i visitatori.
Entro l’estate inizieranno ad usare questo sistema anche il Guggenheim di New York, in Italia invece precursori sono i Musei Civici di Palazzo Farnese (a Piacenza).
La nuova frontiera del marketing museale è la fidelizzazione del cliente, migliorando l’esperienza della visita, in modo da rendere il momento appagante, stimolante e memorabile.
Sembra tutto perfetto, tutto positivo ma come spesso succede vi sono delle problematiche. In primo luogo a livello di privacy, come viene gestita e come e per quale scopo vengono utilizzate tutte le informazioni raccolte? E poi, se queste informazioni si fondano solo sui gusti dei consumatori..non si rischia di proporre non esposizioni innovative ed ambizione ma quelle in grado di rivolgersi ad un pubblico più largo? Quindi le mostre più di nicchia rischierebbero di essere sacrificate.
Sicuramente interrogativi giusti, che rappresentano una buona base dalla quale partire per realizzare un sistema innovativo, personalizzato e con un alto ritorno sulle vendite e le viste al museo.